In evidenza

Maria Soranidis: “Le frontiere della mente”. I vissuti e i comportamenti ricompresi nel termine “patologico”

di Maria Soranidis

I vissuti ed i comportamenti che sono ricompresi nel termine “patologico”, nel corso della storia dell’umanità, non sono sempre stati connotati come agiti negativi e quindi da correggere, isolare o, all’estremo opposto, trascurare. Da tempo si è imposta nell’immaginario collettivo – interpretando liberamente e con grande superficialità una parte di quanto è stato prodotto negli anni e con enormi sforzi da una porzione della medicina, quella che, per l’appunto, si occupa delle patologie mentali, la cosiddetta psichiatria –  una visione del vasto universo di significati umani, che fonda le sue ragioni, appiattendone così la complessità, sulla presunta esistenza di un piano della realtà riconosciuto come “normale” ed uno che da questo esula.

Tale visione, come logica conseguenza, porta con sé la divisione degli esseri umani in due categorie: gli adattati/normali ed i disadattati/non normali/degenerati (quest’ultimi, spesso, vengono anche definiti, per edulcorare la durezza del termine, diversi). 

Considerare, aprioristicamente, degenerazione tutto ciò che fuoriesce dal consenso sociale, può rivelarsi, però, un grave limite sia per gli scienziati, che per l’uomo comune che vede recisi i suoi antichi legami con tutte le varie forme di vita, di cui la propria storia è intrisa (1).

Definire una persona patologica nel senso finora accennato, può costituire, quindi, l’unità di misura minima su cui costruire e, quindi forse, anche inventare il problema stesso. Una persona a cui è stato diagnosticato un disturbo potrebbe, difatti, vivere meglio, se non addirittura bene, se, per esempio, dal mondo a lui circostante non ricevesse continue valutazioni morali negative (peraltro, talvolta, frutto dell’inadeguatezza dell’altro) sul proprio comportamento. Lo stesso comportamento inserito in un contesto adeguato potrebbe, infatti, rivelarsi una eccellente qualità, una risorsa spendibile nella quotidianità e usufruibile da tutti. Come si accennava all’inizio di questo articolo in effetti le cose non sono andate sempre così (2).

Naturalmente questo non significa rinforzare acriticamente i sintomi o i comportamenti lesivi, tantomeno lasciare al proprio destino, o trascurare chi, in qualche modo, vive un disagio che limita fortemente la propria qualità della vita e per questo chiede un supporto, ma significa “semplicemente” non fermarsi solo al disagio, alla sola categorizzazione ed alla possibile soluzione immediata, che pure serve.  Significa” semplicemente” impegnarsi costantemente e frequentemente nella rivisitazione del concetto di patologia.

Significa “semplicemente” aiutare tutta la società a non appiattire e cristallizzare le enormi risorse umane, che pure esistono e si possono esprimere, se individuate, riconosciute come tali ed adeguatamente incalate per il bene proprio e comune. Significa “semplicemente” cogliere ed offrire nuove interpretazioni alla sofferenza psichica, potersi raccontare e riraccontare

1 “ Chiamo i miei Vecchi Amici, Essendo questi i patterns in cui mi sono già imbattuto, Ed in cui mi imbatterò ancora, E che mi dicono che le cose sono vive(…) Questi patterns esistono nella morfogenesi delle calendole, Esistono nella morfogenesi delle foreste, Esistono nel libro che intendo scrivere, Ed in ogni discussione fra gruppi di persone”. G. BATESON, cit. in R. May, Gregory Bateson and humanistic psycology, in About Bateson, a cura di J. Brockman, Wildwood House, London 1978, pp. 85-86.  

2 A tale riguardo è possibile consultare l’enorme quantità di studi antropologici condotta su rituali di culto in svariate zone del mondo e in differenti momenti storici. 

liberamente, poter riflettere, senza pregiudiziali, sulle condizioni ambientali, personali e sociali che potrebbero aver contribuito, seppure non direttamente, a generarlo. 

La sofferenza, infatti può essere considerata anche come un messaggio, un tentativo di farsi vedere, ascoltare. Un comportamento considerato, troppo superficialmente e sbrigativamente, anomalo spesso rappresenta una richiesta implicita ed anche una speranza di trasformazione delle condizioni che lo hanno generato.

Se per un attimo ci si discosta, infatti, dal classico paradigma teorico meccanicistico di matrice cartesiana, che studia le cause dei problemi con lo scopo di rimuoverli e, per un istante, si va alla ricerca di un più ampio significato da dare ad un comportamento etichettato come inadeguato ed al malessere più in generale, è possibile scorgere, in tali manifestazioni, una valenza metacomunicativa. Il tentativo, appunto, di dire qualcosa, di ribellarsi a qualcosa, di voler cambiare qualcosa e come tale può anche rappresentare un atto di amore, una spinta al cambiamento proprio ed altrui. Accusare un dolore in una parte del corpo o vivere una malattia, uno stato di tristezza, uno stato di rabbia, di ansia, di impotenza sono circostanze ineliminabili nella storia del genere umano, ma molte possono essere ristrutturate anche come opportunità per crescere.

Gravide di significati, queste circostanze possono, infatti, rappresentare un’occasione per ridefinire alcune premesse e alcuni contesti della realtà e di vita divenuti pesanti, obsoleti o, inadeguati. Percepire la sofferenza ed altre forme emozionali e/o comportamentali come modalità comunicative a disposizione del genere umano per esprimersi significa, quindi, in questo contesto logico, poter moltiplicare gli strumenti a disposizione per una nuova interpretazione della dicotomia tra il concetto di normalità e quello di anormalità favorendone l’attraversamento e, in parte, il superamento della stessa. È, infatti, vero che un intervento può essere maggiormente efficace se prevede la presenza e la messa in atto di più azioni terapeutiche che mirino, sicuramente, all’immediatezza del problema, ma che siano anche capaci di andare oltre.

Interventi che sappiano sconfinare dal problema stesso per concentrarsi sulle condizioni ambientali, personali e sociali che potrebbero aver contribuito, seppure non direttamente, a generarlo. Affrontare la sofferenza spirituale, psichica e corporea in ambito formativo significa, di conseguenza, anche ascoltare, riflettere ed esprimersi sugli orizzonti di significato, sugli incontri/scontri di aspettative intriseci alla famiglia, alla società e, non ultimo per importanza, sulle scelte di campo degli studiosi che si occupano di ciò.

Maria Soranidis

La scienza, infatti, nonostante i notevoli sforzi in proposito e gli apprezzabili progressi, si è rivelata piuttosto debole di fronte alla condizione di sofferenza e/o insofferenza delle esistenze umane. La disponibilità di una molteplicità di farmaci (3), capaci di influire, a vari livelli, sull’organismo e sugli stati di coscienza, non può esaurire il problema.

La gente soffre e le cosiddette patologie psichiatriche, a quanto pare, sono in aumento. Ma cosa sta succedendo?

3 Farmaci che in alcune occasioni vengono percepiti, da coloro che li assumono, come vere e proprie scorciatoie per uscire presto dalla condizione di disagio.

Purtroppo questa è una domanda che, pur potendosi connotare come “legittima” (4), ammette una pluralità tale di risposte da risultare inadeguata al ridotto contesto di questo articolo, mentre è possibile, invece, formulare qualche riflessione sul modo con cui avvicinarsi alla percezione e cognizione del dolore. 

Non è impensabile, infatti, provare ad incontrare e debanalizzare questi mondi “altri” come mondi che ci appartengono, come parti non espresse, ma comunque esistenti tra gli infiniti Sé di cui ognuno è portatore. Non vi sono leggi che impediscono di incuriosirsi davanti alla non banalità. I bambini, per esempio, sono spesso non banali, perché sono imprevedibili. Se a un bambino si chiede: “quanto fa due per due” e risponde “verde”, ci affrettiamo a dirgli che fa quattro e a considerare la sua risposta una bizzarria infantile.

Così, però, lo banalizziamo (5) e perdiamo la possibilità di stupirci e di interessarci a come quella risposta sia stata costruita e a cosa potrebbe dirci di nuovo e non ripetitivo. La curiosità, inoltre, potrebbe costituire un buon inizio per riscoprire una certa gradevolezza insita nelle forme relazionali umane.

“Ogni storia umana è narrabile, ossia ha una comune dignità umana che le dà il diritto ad essere raccontata” (6).

Non sempre e non tutti desiderano, intenzionalmente, raccontare le proprie e le altrui storie, non a caso a tal fine esistono gli scrittori, gli storici, i letterati o anche gli insegnanti, gli educatori e gli psicologi. Da sempre e per tutti, però, i racconti rappresentano le strutture di senso entro cui collocare azioni, contesti ed eventi passati e futuri ed è per tali ragioni che sono sempre presenti lungo tutto l’arco della vita.

Come Sharhrazad che per vivere, nel libro delle “Mille e una notte”, racconta storie al sultano, così ciascun essere umano, per donarsi nuovi giorni e riconoscersi in quelli vecchi, costruisce e ricostruisce ininterrottamente il racconto della propria esistenza. Sono racconti che narrano di sentieri attraversati, che rievocano le tracce dei tentativi, squisitamente umani, di percepirsi, farsi percepire e, per qualcuno, farsi ricordare. Sono racconti densi di domande che aspettano risposte per poter cambiare.

Nell’instancabile affaccendarsi di ognuno per dare forma al mondo e al proprio essere nel mondo, infatti, la funzione delle domande assolve il compito, anche se strategicamente è errato (7), di cercare conferme, rendere coerenti e stabili nel tempo i racconti che, di volta in volta, di contesto in contesto e, soprattutto, di persona in persona, ognuno inventa sulla propria vita. Così come le risposte, che prima di tutto sono rivolte a chi le formula hanno, in certe circostanze, la funzione di realizzare le

4 Von Foerster distingue le domande in legittime, quelle di cui non si conosce la risposta ed illegittime quelle che, al contrario, contemplano una replica assolutamente certa, ma banale. Cfr., VON FOERSTER  H., Sistemi che osservano, tr. it.Astrolabio, Roma 1987.

5 Cfr. TELFNER U., Introduzione, in  VON FOERSTER  H, op. cit., p.36.

6 M. MILELLA, Percorsi tra  narrazione e tras-formazione, Cleup, Padova 2000, p. 110.

7 Cfr., R. FISH, J. H. WEAKLAND, L. SEGAL, Change.Le tattiche del cambiamento, tr. it. Astrolabio, Roma 1983.

aspettative personali e interpersonali che, consapevolmente e più spesso inconsapevolmente, si è scelto di vivere con l’altro.

Le vite umane, quindi, sono il frutto di storie, anzi, come sostiene Bruner, non si ha una vita se non la si racconta e ciò che la vita crea è la narrazione della vita stessa.

Riconoscere che la dimensione narrativa è propria della natura umana significa quindi, implicitamente, riconoscere che la dimensione relazionale è costitutiva di ogni forma di vita e che il mito dell’autodeterminazione è falso tanto quanto quello dell’isolamento totale.

Quest’ultimo aspetto, che impercettibilmente emerge dallo sfondo legato alla trattazione della narrazione, fornisce perciò la possibilità, attraverso la formulazione di qualche quesito, di avvicinarsi al tema della cura del disagio e dell’emarginazione sociale con nuovi strumenti e nuove premesse su cui riflettere. È possibile, infatti, che una delle tante ragioni di sofferenza derivi proprio dal desiderio, inespresso o inesaudito, di essere raccontati in modo diverso da quello conosciuto e percepito come opprimente e limitante. 

Ricapitolando, rivisitazione del concetto di patologia, debanalizzazione della sofferenza, valenza metacomunicativa, curiosità e narrazione, sono alcuni tra gli strumenti chiave più potenti su cui puntare continuamente l’attenzione e di cui avvalersi, per evitare le scorciatoie, le stagnazioni e le riduzioni in termini di sole somministrazioni di farmaci ( repetita iuvant, che pure sono talvolta necessari), nei percorsi terapeutici.

Maria Soranidis è laureata in Scienze dell’Educazione alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Studi di Perugia.