- di Milena Renzi –
In quel maggio bastardo del Duemila, mi diagnosticarono una distrofia muscolare. Non avrei voluto essere nei panni di quel povero genetista, che dovette rifilarmi una diagnosi così rognosa.
A dire il vero, non ricordo con esattezza cosa gli dissi, ricordo solo che, uscendo dal reparto di Rimini, parcheggiai il Suv di mio padre dritto dritto sulla rotonda delle Befane, e restai aggomitolata sotto lo sportello del lato passeggero per non so quanto tempo. Non so neppure che strada feci per rientrare in ufficio. Mi trovai seduta dietro la scrivania e basta. Ricordo le mani sul viso, e dal viso ai capelli, fino a lasciarle impigliate lì per non so quanto tempo.
Non è facile digerire una cosa del genere, avresti bisogno di gridare, tirare due madonne così tanto per ricordarle di essersi dimenticata di te, dare un calcio ad un sacco per le botte, sfogarsi ecco, invece ricordo solo che non versai neppure mezza lacrima, e che l’unico problema era dirlo a Frau (mia madre).
Anche lei aveva la stessa malattia, e non avrei voluto si sentisse in colpa anche se ingiustificatamente. Così lasciai passare dei mesi. L’ospedale mi mise a disposizione una terapeuta per darmi una mano a smaltire la sbronza (anche se sono astemia), mi aiutò ad affrontare la mia nuova coinquilina (che io manco ci volevo parlare con quella troia!).
Così dopo pochi mesi facemmo un patto. Firmammo un patto di non belligeranza; io le permettevo di prendersi il lusso di mangiucchiarmi qualche muscolo, a patto che mi lasciasse le braccia, e che non mi rompesse facendosi sentire, quando avevo da uscire col tipo!
Per un po’ il patto restò saldo, poi invece per usucapione si ciuffoló tutto il resto.
Frau se ne andò solo cinque anni dopo, e comunque riuscii a dirle di me.
Avrei tanto voluto diventare madre, e forse la madonnina per farsi perdonare la svista, mi donó una piccola creatura dalla pelle ambrata e dagli occhi verdi.
Non è stato facile. Non lo è mai stato, fin dal primo momento. Alcuni amici se ne andarono dandomi della pazza, altri restarono al mio fianco per la stessa ragione. Sì in fondo lo ero. Volevo essere madre nonostante la malattia.
Persi anche qualche parente, ora comprendo che si trattasse di protezione…
La gravidanza fu difficile, molto difficile.
Feci il prellievo dei villi coriali, per verificare se la piccola avesse ereditato lo stesso cromosoma deficiente.
Mandato il materiale a Roma, risposero (dopo due mesi) che il materiale inviato era scarso per cui poco apprezzabile, così ripetemmo il test. Inviato a Milano risposero (dopo mesi) che la piccola avesse ereditato il deficiente (forse).
Ripetiamo il test stessa cosa.
Ormai siamo in dirittura d’arrivo però.
Uscivo poco, non sopportavo la classica frase:
“Uh che bel pancione, maschio o femmina?”.
“Femmina” rispondevo col sorriso impostato, in realtà stavo morendo.
“Beh dai, l’importante è che sia sano!”.
Io sta cucciolotta che mi picchiava l’amavo già. E la frase di quella signora al supermercato mi faceva girare le palle. Abbassavo lo sguardo e tornavo alla mia casetta rossa.
Quando Emma compì due mesi le feci fare un DNA contro i pareri dei medici, per loro ero pazza, avevamo in mano già il referto di Milano, mica dell’ospedale di Scacciano!
Solo il mio genitista mi sostenne.
Il materiale venne inviato a Modena, e dopo un anno arrivò il risultato.
Emma NON aveva ereditato il cromosoma deficiente! Si scoprì che nei precedenti vi fu contaminazione materna.
Così cominciò la nostra vita assieme. Sole io e lei in direzione del mondo.
Questa lettera la scrissi per Emma due anni fa.
“Piccola mia. Sei arrivata in un giorno indiano di caldo colloso misto ai Bajan gracchianti. Sei arrivata così… come arriva una nevicata e sorprende un cerbiatto. Sei arrivata accelerando il mio battito e facendolo restare così fino ad oggi. Ti ho protetta nel mio ventre dai muscoli sordi ma ti ho protetta fino a quando non hai deciso – con la stessa velocità con la quale arrivasti – che fosse ora di incrociare i nostri occhi e di presentarci. Ti ho tenuta in braccio sollevandoti dal mondo e ti ho insegnato a giocare a terra ad abbracciarci a terra guardando il soffitto di stelle color cristallo.
Ti ho insegnato a parlare con me ed ho imparato a parlare con te e non a te. Ho fatto la mamma, ho fatto il papà, la nonna, il nonno, la zia… sempre col sorriso anche quando c’era ben poco da sorridere… e giorno dopo giorno mi innamoravo sempre più di te… perché ogni volta che i tuoi occhi si posavano dritti sui miei… sapevo di essere stata scoperta e perdonata.
Ho cercato di insegnarti ciò che sapevo e abbiamo assieme trovato risposte anche alla domanda su come faccia il coccodrillo. E ora lo sappiamo.
Questo è essere mamma.
E ora diamola una definizione a questa mamma…
È colei che sa tutto del proprio figlio, che conosce con avvilimento a memoria la canzone di quel deficiente di Rovazzi che ti piace tanto… che sa che vai pazza per la salsa Thay.
Che adori la storia francese, che non ti piacciono i codini e gli abiti rosa. Che pattini da quando iniziasti a camminare.
Che adori l’ altezza e la velocità – e la cosa mi terrorizza ma taccio -.
Una madre sa cosa tu abbia provato nel salvare quel derelitto di un passerotto difettato che si è lasciato cadere a piombo in giardino.
Una madre sa la tua preghiera chiamata “polverina” che recitiamo da quando iniziasti a mettere assieme le parole e a provarci gusto. Tutto questo è mamma.
Mi avevano intimata di non procedere con la gravidanza, dissero che era da idioti partorire con la distrofia muscolare “è una malattia rara!”.
Io sono fiera di non averli ascoltati! Sono fiera di essere un mamma rara!
Chi disconosce queste cose è solo un mero consulente informatico preoccupato solo di fare un backup SANO del proprio DNA.
Io sono fiera di esserti mamma e so anche che i genitori non si possano scegliere, ma… se puoi scegli me tutti i giorni della tua vita…